Editoriale Maggio 2021: L’eterogenesi dei fini
Editoriale Maggio 2021
L’eterogenesi dei fini
Insomma c’è questo fotografo, un fotografo amico. Si, pure alcuni di voi lo conoscono.
Mi mostra una sequenza di immagini.
Molto bella, istintuale, accattivante, c’è una buona energia.
Ottima tecnica, si capisce da tanti particolari. C’è pathos, emozione. È un bianco e nero neutrale, non sta lì pavoneggiandosi a dire….oh che bel bianco&nero sono… è solo un bianco e nero progettato per non avere ambizione e non distogliere attenzione.
I soggetti nelle immagini sono delicati, sembrano entrare nelle fotografie in punta di piedi, senza disturbare e senza clamori.
C’è una storia che si sviluppa, non c’è finale ma si capisce che una sequenza ben chiara esiste.
Ebbene, dopo avermi lasciato dire a freddo qualche cosa sull’emozione provata nel guardare quelle foto mi lancia la bomba.
Mi spiega di avere scritto un plot, una traccia. Di averci fatto nottate, di aver avuto le idee ben chiare prima di scattare.
Poi è arrivata la sessione di scatti. Poi l’editing, e proprio in quel frangente ha capito che nulla funzionava come sperato ma che, selezionando altre immagini scartate in prima analisi e spostando una serie di elementi, la storia prendeva un’altra piega e solo a posteriori, cioè quando ormai le fotografie erano state fatte, decide di reinventarsi la trama e adattarla all’uopo.
Boom! Se dichiari una cosa del genere al mondo insemini la madre di tutti gli haters.
Ci sono tabù intoccabili nel mondo ottuso di quella parte di fotografia che non vuole sentire.
Sopravvive una frangia ortodossa per cui, per etica, certe cose non si fanno e-ma-soprattutto, non si possono dire.
Torniamo all’amico fotografo.
Ha messo le mani nella marmellata e invece di leccarsi le dita e richiudere il barattolo si è assunto una responsabilità svelandosi.
Ma davvero era necessario dirlo?
In fotografia c’è questo bisogno, a volte latente, altre caldeggiato, di dover spiegare o raccontare tutti gli antefatti (che tipo obiettivi, macchine, programmi, oppure chi-dove-quando) perché il giudizio parte da lì, cosa che non facciamo con altre forme d’Arte, dove invece valutiamo il prodotto finito, il resto ha un peso minore.
La storia della fotografia ci insegna che alcuni capolavori sono nati per caso, altri per sbaglio, altri ancora fatti passare per casuali mentre invece erano costruiti, ma ciò che rimane è l’immagine, non per come è stata fatta, ma per ciò che mostra.
Quando abbiamo scoperto che la foto dell’Hotel de Ville era stata costruita non abbiamo smesso di amarla.
Quando ho visto Fontana leggere quale per lui fosse il senso della fotografia tirando fuori un foglio spiegazzato dal taschino non ho smesso di amare le sue fotografie. Forse avrei solo sperato che non ci fosse bisogno di leggere per dire quelle cose ma bastasse aprire il cuore, tutto qua.
Impariamo a godercela sempre la fotografia, non solo per quello che sentiamo o leggiamo, ma per ciò che a noi sembra.