Editoriale Novembre 2020: Questioni concrete
Editoriale Novembre 2020
Questioni concrete
Il cemento vive – cosi mi diceva l’Ingegner Pavarani a scuola. Lo aveva già espressamente teorizzato Le Corbusier e, negli anni a seguire, Smithson&Gill lo nobilitarono, il cemento ha possibilità espressive.
Nobili quanto il marmo e gli altri materiali da costruzione.
Béton brut, grezzo ed economico, e cosi nacque il brutalismo.
L’Europa ne è piena di esempi, da Berlino a Roma.
Passata la buriana dei fotografi d’architettura degli anni 70-80 sembrava dimenticato, che a nessuno interessasse più, invece no.
L’hastag brutalism dilaga. Il desiderio di rappresentazione, probabilmente partito dalla Città Ideale di Piero della Francesca, non si è mai sopito del tutto.
Fotografare l’architettura è un bisogno di tutti i cronisti e studiosi degli agglomerarti urbani, e cercare di fare le bucce ai vari stili probabilmente è diventato necessario per sfrondare l’intricata giungla di laterizi che funestano le nostre aree urbane.
L’impresa tassonomica di Basilico non rimarrà vana, i Becher avranno già dato un party nell’alto dei cieli con Van der Rohe, mentre Alvar Aalto, addetto al bbq, se la starà ridendo, ca va sans dire.
L’evidenza è che l’architettura la possono fare tutti (qualcuno lo crede almeno) perché un edificio è staticamente lì, mica scappa, e con un buon software e una macchina fotografica si può completare il resto.
C’è però un aspetto filosofico nel raccontare l’architettura attraverso la fotografia che non riguarda la mera rappresentazione strutturale o stilistica di un luogo, di un agglomerato o un’urbe antica.
Non sono solo inerti, non sono solo travertino o calcestruzzo ma c’è la rappresentazione della vita e dell’uomo. Ne aveva ben donde l’Ing. Pavarani a dire che il cemento vive, non di una sua vera vita autonoma ma del riflesso della civiltà che lo ha assemblato.