Editoriale Febbraio 2020: La storia del fotografo che non vedeva

 

Editoriale di Febbraio

La storia del fotografo che non vedeva.

L’universo fotografico è costellato di storie romantiche, alcune davvero belle, con lieto fine, altre un po’ meno ma ugualmente cariche di pathos e poetica.
Evgen nasce sfortunato già da subito. Perde il primo occhio a 12 anni per colpa di un ramo d’albero. Ebbene, se lui non vede più da un occhio è il caso di dire che invece la sfiga ci vede benissimo e qualche tempo dopo gli fa perdere anche l’altro, questa volta per l’esplosione di un detonatore abbandonato.
Evgen Bavčar però ha una forza interiore straordinaria e sa che la vita è in debito con lui.
Si laurea in filosofia, studia, impara cinque lingue che parla in maniera colta e appropriata, ma soprattutto si dedica ad una grande passione: alla luce, con la quale ricorda, ricostruisce immagini nel cuore e nell’anima.
Luce che all’inizio percepisce a tratti e poi sparirà per sempre.
La fotografia si dimostra perfetta per testimoniare le immagini che gli sovvengono in mente, come anche quelle che ricorda e che non vuole dimenticare .
Scopre il piacere di possedere qualcosa che gli occhi non possono più inquadrare ma la mente sì.
Paradossalmente la Fotografia diventa il viatico, il mezzo per riappropriarsi del mondo. Come? Attraverso i rumori, ai profumi, alla relazione che ha con la luce vissuta e immaginata. Dice: io non ti vedo ma ti faccio vedere agli altri.
Non considera la Fotografia come narrazione della realtà ma ha un approccio più creativo, più simile a quello di Man Ray.
Non è da solo in questa genesi artistica, per la messa in opera delle sue immagini mentali si è avvalso per molto tempo della collaborazione dalla nipote Veronica, un sodalizio visivo familiare. Lei racconta cosa vede mentre lui costruisce l’inquadratura.
Se è vero che il terzo occhio è quello interiore capace di percepire realtà invisibili situate oltre alla visione ordinaria, ebbene Bavčar ce lo testimonia.
C’è un’immagine che funge da epitome dell’opera di Evgen, è un campo di notte, pieno di nero buio, le uniche presenze evidenti sono dei fiori di tarassaco, evanescenti come lo è stata la sua capacità di vedere, ma non quella di immaginare.
Enzo Pertusio

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