Editoriale Aprile 2022: La storia si ripete
Pensavamo che Robert Capa e le foto di quel 6 giugno marcassero uno spartiacque tra civiltà perduta e un futuro consapevole, e non solo una tregua, nemmeno troppo rispettata, nella pazzia delle tragedie perpetuate dall’uomo.
Se pensiamo che quella che ho definito “tregua” ha visto succedersi, ad esempio: la guerra in Vietnam e Indocina, quella in Cecenia, l’11 settembre e la guerra del Golfo, solo per citare le prime che sovvengono alla mente, allora è chiaro che nessun futuro consapevole è stato costruito e l’orrore di tutte le guerre dimostra che l’uomo ha fallito, perché l’uomo non impara, dimentica.
Però testimonia, quello sì.
E la fotografia è stata un’arma sia di pace che di propaganda, per dimostrare in entrambe i casi che l’uomo, nel lungo novero degli esseri viventi, è quello più stupido.
Le fotografie hanno raccontato al mondo cosa hanno visto i soldati russi, toh, i russi, entrando nei campi di concentramento nel ‘45.
Lezione non servita. Quindi anche l’enorme sforzo fatto dai W.Eugene Smith, Don McCullin o James Natchwey ieri, o i nostrani Alex Majoli, Bucciarelli, Micalizzi oggi (l’elenco sarebbe infinito ma ho pescato a caso tra i primi della classe) serve ad indignarci quel poco che non basta nemmeno più a fare notizia.
Le immagini di guerra sono tantissime. La fotografia di genere ha prodotto in questo secolo e mezzo meravigliose, scusate l’ossimoro, inquadrature sulla storia degli orrori umani.
Quella di Morenatti che vi mostro in allegato a questo editoriale non mostra sangue o morti, non c’è nulla di apparentemente cruento in questa tragedia silenziosa e composta. Uomini, donne e bambini, giovani e anziani, con ciò che rimane della loro casa, i loro ricordi, i loro affetti e i loro indumenti tutti stipati in una borsa a tracolla o uno zaino in attesa di scappare via da tutto quel dolore.
Ricordano le valigie di cartone legate con lo spago di chi è sempre scappato, dalla miseria, dalla povertà o dalla guerra di ieri, di oggi e di domani.
La storia si ripete, sempre.
Enzo Pertusio