Editoriale Agosto 2020: Eli&Gordon. Rispettivamente Reed e Parks. Due monumenti della Fotografia

Editoriale Agosto 2020

Eli&Gordon. Rispettivamente Reed e Parks. Due monumenti della Fotografia.

Nelle loro biografie si trova spesso tra le prime righe: …fotografo afroamericano, oppure, di colore.

Mi ha sempre incuriosito questa precisazione e non ho mai capito se fosse un modo per rimarcare una libertà finalmente acquisita o un modo per dire: pure i neri sanno fotografare.

Non la voglio buttare in caciara, della questione razziale non tocca a me parlarne, c’è troppa complessità e altrettanta acredine. Ho conosciuto anche razzisti neri e non erano migliori degli altri, di sicuro tutte le forme del razzismo sono bieche dimostrazioni di quanto l’uomo sia piccolo. Quindi spostiamo il focus andando oltre la questione epidermica per parlare della loro capacità, magica, di scrivere importanti pagine della fotografia di tutti i tempi. Se proprio vogliamo potremmo dire che l’essere afroamericani non è stato d’aiuto e che se sono diventati famosi è perché erano bravi elevati al quadrato, anche a sgomitare per farsi spazio nel mainstream di allora.

Sono due le immagini che ho nel cuore, una ciascuno, e per ciascuno i riferimenti razziali sono evidenti.

Eli Reed fece quello scatto quasi quarant’anni fa, quello dei ragazzetti di Harlem Street abbarbicati alla vecchia Lincoln ormai diventato rottame. Dimorano sulla cappotte, sul baule. È la scena di una conquista, il raggiungimento di una vetta che odora di libertà e affrancamento. Nella New York divisa in feudi, Harlem appare ridotta a sfasciume e quei giovani irriverenti fanno il verso a quegli altri giovani di tanti anni prima con la bandiera Old Glory della conquista di Iwo Jima, l’immagine di Rosenthal per capirci.

Banksy pure usa quella fotografia per provare a spiegare quel sogno americano che tale è rimasto, un sogno, e che spesso si tramuta in incubo.

Morale: l’America ha liberato (concetto molto controverso) paesi dalla loro condizione socio-politica senza mai riuscire davvero a risolvere il conflitto razziale al suo interno.

Gordon Parks usa un’altra icona, quella dell’American Gothic di Grant, dipinto simbolo dell’America ariana e wasp degli oriundi europei arrivati dalla Danimarca o dall’Olanda che si arrogarono il diritto di rappresentanza dell’America puritana e patriarcale.

Nella foto di Parks, irriverente, che controbatte al dipinto di Grant, è Ella Rose il soggetto principale.

Con lo sguardo imbarazzato mostra come un vessillo la vecchia scopa di saggina e il mocio come fossero i simboli delle minoranze costrette ai lavori più umili. C’è tutta l’indignazione degli emarginati e degli sfruttati. Dei nativi, presi a calcinculo e parcheggiati nelle riserve, dei cinesi che hanno costruito la dorsale ferroviaria del paese, dei chicos raccoglitori di frutta in California o dei niggas dalla schiena ricurva nei campi del Mississippi. 

Sono passati decenni da quelle due immagini e molte cose sono cambiate ma rimane, nell’intimo di ciascuno, la consapevolezza che l’uomo non ha mai smesso di alimentare le differenze.

Come dice Louis CK, il Crozza americano, se un giorno le minoranze si metteranno d’accordo ci spazzeranno via come un tornado, ma fino ad allora, aggiunge con sarcasmo: chissenefrega!

È un modo becero per chiosare ma rende l’idea di cosa significhi oggi la questione razziale per quell’altra metà di mondo.

Enzo Pertusio

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